Storie di migrazioni, di devozioni, di miserie, di servitù, di malaria ... e di tanti silenzi. 2006

Osservazioni sullo stato ambientale relativo al territorio di S. Michele del Quarto,
sulla precarietà ei suoi contadini e su di un Gelso detto “L’Albero della Vita” la cui presenza solenne si esprime da oltre un secolo a “Cà delle Anfore”


Il dovere della storia
Un anonimo tempo fa scriveva: “Povere campagne che il colono fatica a rivendicare all’onor delle messi, furono cospicue città, villaggi ove il cittadino va ora a gittare il fardello delle noie d’un vivere compassato, ebbero tanta parte nello svolgimento della civiltà universale, da meritar ciascuno una storia”. Un appello a raccontare uno stato in vita legato alla storia del proprio paese per smuovere le emozioni e gli affetti degli altinati, da sempre schivi, riluttanti, o indolenti nel raccontare vicende e memorie lasciate dai propri padri.
E questo sia per la condizione servile del contadino sia per l’essere stati costretti al lavoro dei campi rinunciando all’adolescenza, all’istruzione, allo sviluppo della personalità. Così oggi non esistono testimonianze e memorie, ma solo riferimenti che i proprietari spesso riportavano a modo loro.
1923  ingresso del parroco don Giuseppe Bettiolo
Nel 1893, un periodico della Curia locale intervenendo a favore dei contadini, rivendicava loro il diritto al riposo festivo e rivolgendosi ai proprietari più conservatori del territorio, dichiarava: “…sono uno peggiore dell’altro, che s’avvinghiano al collo del miserabile e non gli lasciano il respiro e lo strozzano, dandogli pane solo in cambio di sangue (…) caricano sulle sue spalle il peso di tutte le tasse: non hanno pietà di lui (…) ingrossano sempre le pesanti cifre di quel maledetto libro dei crediti, anche quando la grandine devasta ogni cosa nelle campagne (…) prestano un sacco di grano per averne due (…) mettono bende sugli occhi dei contadini e girano loro, a capriccio dell’agente tutti gli affari della stalla (…) smungono il muscolo del contadino e non ne rispettano l’anima (…) vediamo questa turba d’infelici gementi, vittime delle migrazioni e della pellagra”.
Anche don De Martin parroco di S. Michele, viste le pietose condizioni dei contadini, non esitò, fatto inusuale a quei tempi, a scagliarsi dalla balaustra della chiesa contro i ricchi della zona accusandoli di malvagità e invitandoli al rispetto del settimo comandamento.
Ne ebbe ostilità, violenza fisica, minacce di morte, e infine l’abbandono ecclesiasticoLa nobiltà dell’epoca, infatti, era molto riluttante ad accettare una disciplina strettamente religiosa se non quella proposta da loro stessi e sottoscritta dai contadini illetterati, che nel patto colonico, si firmavano prevalentemente con un segno a forma di croce.

Lungo il Sile sorgevano ville e proprietà vacanziere frutto di quella che il De Martin chiamava opulenza, che porta all’eccesso e soffoca gli aspetti più intimi, i ricordi che non abbiamo saputo conservare, smarrendo quello spirito dei coloni che ci fa sentire più poveri nello spirito.
Ma qualcuno meditò nel proprio intimo, comprese ansie e tormenti, condivise sentimenti e stati d’animo, in seguito apprese gli eventi, le gesta, le storie e le tradizioni, e ora vorrebbe raccontarle.
Così, dando voce all’anonimo, narreremo quanto accadde a S. Michele del Quarto in quell’anno 1910.

Una famiglia: cinque casati
Dopo un ventennio di appelli finalmente un intero casato, composto allora da 82 persone, fu diviso in tre nuclei familiari: ognuno ricevette un alloggio proprio; il ceppo con più eredi mantenne il medesimo domicilio, quelli minori furono trasferiti altrove. 
I possidenti gestivano in modo feudale il mondo agricolo, unica ricchezza di allora, ma, di fronte alle pietose condizioni dei coloni, accondiscesero alle loro richieste. Non si conoscono le motivazioni di questa condotta. Conosciamo invece le ragioni della divisione, individuata nell’eccezionale presenza umana dovuta alla prolificità del casato, tanto massiccio da moltiplicare il bisogno nutrizionale dei contadini; misura che influì notevolmente sui fondi coltivabili, in origine sufficienti, in seguito carenti sino a non poter sfamare l’intera collettività.
Anni '50 il campo dietro la canonica
D’altra parte mettere al mondo una schiera di figli era d’obbligo per conservarsi l’attività, la cura degli anziani, anche per garantirla alla prole, la quale, sempre più isolata dal mondo civile, altro non poteva sperare che in un possibile avvicendamento.
Di conseguenza circa la metà dei residenti; per la ristrettezza dell’alloggio, disagio, malnutrizione e quant’altro, fu divisa dal proprietario. Trent’anni dopo, per lo stesso motivo, la maggiore ed in seguito una minore, furono divise ancora una volta.
Nacquero allora altri due casati; cinque in tutto, il cui parentado per un secolo e più, si mostrò la compagine più numerosa a S. Michele del Quarto. Ma per conoscere interamente le vicende dobbiamo trasferirci a ritroso di sei anni.

L’origine dei cinque epiteti
L’annuncio della Curia della costruzione della nuova chiesa non fece felici i cittadini di S. Michele Vecchio, che 60 anni prima avevano respinto il progetto di trasferimento della loro chiesa.
Urgeva demolire la vecchia chiesa, recuperarne i mattoni, alienare la canonica, il terreno circostante e così via; i residenti invece, contavano sulla conservazione della chiesa, sulla tutela dei nove sacerdoti allora tumulati sul pavimento. Il decimo sacerdote morì il 20 luglio 1902; per don Giulio Codemo, cui fece seguito don De Martin, non c’era più spazio disponibile e fu sepolto a fronte della porta maggiore.
Ma con i fondi previsti, oltre al contributo di Pio X, si edificarono mura e tetto. Il nuovo parroco giunto nel 1902 dovette fare di necessità virtù e, cercando manodopera non qualificata, bussò alla porta del numeroso casato, a cui chiese dapprima la disponibilità, poi la collaborazione. Ben inteso senza nessun compenso! non c’erano denari, ma solo per carità cristiana e per la gloria del Signore. Nonostante si fosse rivolto ai più bisognosi della comunità, che non rifiutarono, neppure quando era impellente il lavoro nei campi. Invero anche altre famiglie furono disponibili nell’offrire manovalanza.
Ma per la divisione delle famiglie, si doveva trattare con ogni casato, individuarne le residenze, distinguere le persone che avevano lo stesso nome in ogni famiglia, confuso e simile in una mescolanza d’epiteti, raffiguranti l’arte, nobiltà, battaglie e quant’altro, che per discernerli tutti si dovette assegnare a ciascun casato un titolo diverso dall’altro (1).
                                                     

(1) – Per il numero esorbitante dei suoi inquilini, la fam. colona Bonesso era chiamata “ B. Grande”.  In gergo dialettale “Grando”. - Tra il 1909/10, quando per la prima volta il casato fu diviso, contava più di 82 persone. Causa che costringeva i contadini alloggiare in ricoveri esterni all’abitazione, (Casoni o baracche) e i pasti, per quanto consumati nella medesima cucina, avvenivano separatamente in due turni diversi. Tra il 1936/37 il nuovo proprietario disgiunse ulteriormente il nucleo familiare. Da entrambe le separazioni nacquero cinque casati con altrettanti titoli diversi. Dalla prima separazione nacquero: B. Grande -B. Piccolo o Bonesseto - B. Mandria o Brustolae in seguito B. Cà Bianca, in un secondo tempo B. Mandria Piccola
Dal 1848 al 1999, la presenza dei B. a Quarto d’Altino contava 228 nascite. Se poi vi aggiungiamo i precursori riconosciuti in 15 persone giunte dal comune di Mogliano Veneto, la cui presenza oramai trapassata è rimasta solo un ricordo di famiglia, sommano compresi, 243 individui.  Eccetto gli emigranti transoceanici, europei e nazionali, quanto vi rimane, è presente nel territorio comunale e limitrofo. Le persone decedute, quanto quelle viventi, sono documentate in un elenco progressivo conservato dallo scrivente. Inoltre, la storia non comune, l’abbattimento dei resti del terrapieno della Via C. Augusta, i blocchi di marmo trasportati tra le fondamenta della nuova chiesa, il contributo manuale per la sua costruzione, lo stato precario, il suo modo d’essere, memorie, circostanze ed episodi; sono tuttora presenti nei ricordi di famiglia.

Le visite pastorali alle “Pallade” e l’archibugio di don Menini
Narriamo ora di un piccolo lembo di storia locale, meglio di un vissuto di povertà, sofferto e sopportato dai coloni B. allora fedeli della parrocchia di S. Michele del Quarto, ma dipendenti dalla cappella di S. Magno delle Pallade. (2), che il Capanni ricorda nel 1844 come meschina chiusuccia non soffittata, in riva al Sile presso la Villa di proprietà Lattis (ora Trattoria Cesaro; al cui lato esisteva scuderia e calessi: ora magazzino).
18 luglio 1954 Comunione Solenne, foto ricordo
Il 16 luglio 1821, l’allora Patriarca di Ve-nezia Giovanni Pyrker - in visita pastora-le alle Tre Palade, nei pressi della casa colonica cui si parlerà (3), mosso a pietà, annotava: “Vi sono miserabili dipendenti e villici lavoratori, miserabilissima parrocchia di povere paludi, zona sog-getta ad inondazioni per lo straripare del Sile - Il suolo è formato in gran parte dalle foci dei fiumi, è paludoso e solitario - La popolazione è rurale e misera.
Ma più di tutto, ciò che devastava la quotidianità dei contadini, erano le risaie dei Lattis, situate lungo il Siloncello e portatrici del morbo della malaria.
E Jacopo Monico, nuovo patriarca di Ve-nezia, il 7 luglio 1842 registrava: “Tutti poveri – quasi tutti servi colonici. – Non ci sono levatrici - Il peccato dominante è la bestemmia, ma i parrocchiani sono buona gente – La scuola è tenuta dal Parroco - La chiesa è rovinosa e indecente – La casa canonica insalubre - La frequenza alla dottrina cristiana è discreta, data la difficoltà di comunicazioni e le fre-quenti inondazioni”. Poi invitava il parroco don Michele Menini di“togliere lo schioppo appeso accanto all’altare della Madonna”. Il fucile, anche se scarico, scoraggiava i malvagi che armati di pugnali e spade entravano nella chiesetta, commettendo furti e rapine, terrorizzando anche i fedeli dediti alla preghiera.
Anche la chiesa di S. Michele Vecchio fu soggetta alle medesime ruberie, praticate dai seguaci votati agli ideali napoleonici. Ricordando l’occupazione francese, pensiamo alle razzie effettuate nelle chiese e nei cenobi altinati; anche il monastero delle “Pallade” fu saccheggiato (ora Cà delle Anfore). Già! Ma questa è un’altra storia. 

(2) - La cappella di S. Magno delle Tre Pallade dipendeva sin dal 1592. (sec. XVI) dalla parrocchia di S. Michele del Quarto. Data in cui fu visitata per la prima volta dal vescovo Antonio Grimani.  Di essa si ha notizia già dal XV. sec. - (1400) - Nel 1692, in luogo della prima ne fu eretta una nuova, della quale si conserva la foto unitamente alla torre campanaria, poi distrutta; il tutto benedetto dal vescovo Girolamo Contarini. Nel 1912, per soddisfare i bisogni della popolazione in continua crescita, si eresse una seconda chiesa più ampia in località Portegrandi.
 

(3) – L’edificio accennato oggi porta il titolo Cà delle Anfore. Dal 1848 vi dimorò la fam. colona Bonesso. All’epoca era sotto la cappella di S. Magno delle Pallade, molto lontana quindi dalla chiesa di S. Michele del Quarto, allora situata nell’odierno S. Michele Vecchio. Costruita la nuova chiesa, l’edificio abitato dalla fam. B. sarà inserito nel distretto ecclesiastico di Quarto d’Altino, dove tuttora risiede. Lo spazio limitato impone l’esclusione delle fonti riguardanti il cenobio, nonché le vicende, successioni, trasformazioni e proprietari di Cà delle Anfore.

Quarto d’Altino: paese immemore e ingrato
Quarto d’Altino non ha mai dimostrato sensibilità verso il fenomeno sociale dell’emigrazione. Si è scordato dei suoi coloni, di quanti lasciarono il paese per fame. Di costoro poco o nulla si conosce, si sa solo che se ne sono andate molte famiglie, di cui si è perso addirittura la memoria. In verità non sono stati sufficienti sessant’anni di storia repubblicana per ricordarne l’emigrazione forzata, ma ciò che più sconcerta, non è tanto l’omissione, quanto non aver saputo approfittare di un’epoca libera da ogni opposizione di sistema: in passato non era così.
Non a caso in alcuni paesi limitrofi, dove la disciplina del ricordo è rigorosamente radicata, si celebra la giornata dell’emigrante, restituendo dignità e cittadinanza sino allora mai onorate con festeggiamenti  a cui spesso seguono visite alle sculture commemorative, alle case coloniche, per trasmettere l’italianità perduta.
Da noi non accadde niente di simile e con tale silenzio si è persa persino la memoria. “Un paese che non ha memoria, non ha neanche futuro” (anonimo): lo diciamo perché la memoria di un passato, per quanto infelice, non si trasformi nella tristezza di un silenzio incomprensibile.

Le cave maleodoranti di Cà delle Anfore
Nell’anno di guerra 1916 il mese di giugno fu un periodo particolarmente doloroso per il casato dei “B. Grande”: in quei giorni di mietitura la morte improvvisa di un giovane coltivatore, milite per l’occasione, destò costernazione, lacrime e rabbia. Lamentando la mancanza del pane e la miseria imperante di fronte all’ignoranza del custode e all’incomprensione  del padrone. Non restava che chinare la testa, salvo rialzarla per chiedere la chiusura delle cave maleodoranti, cui il sorvegliante rispondeva che c’erano sempre state.
In effetti c’erano ma dal 1848, data in cui il primo gruppo della famiglia B. giunse a Cà delle Anfore, ben visibili, situate dietro e ai lati dell’abitazione, aperte e nauseabonde, immobili e stagnanti (4). Inoltre durante le torride estati diffondevano il morbo della malaria. L’ammorbamento diffuso colpiva il 20 per cento degli abitanti: 450 persone solo tra i contadini e tale effetto si estendeva con rilevante numero di morti per perniciosa, in quasi tutto il comune.
Contestando le cifre e i pericoli che derivavano dalle cave e nel vano tentativo di legittimarle, il burocrate ostile, sosteneva che nei pressi del Sile, area abitata dai coloni, per effetto dello scorrere delle acque fluttuanti e della temperatura gradevole che ne scaturiva, doveva generarsi aria pulita, ben ossigenata, sufficiente da tenere lontano qualsivoglia infezione, contraddicendosi nel momento in cui sosteneva la spesa per l’assistenza e per il chinino, come sostenuto dal colono Eugenio (5).
Anche le leggi sanitarie e il medico oltre al prete e all’ostetrica, concordavano nel riconoscere il paludismo avanzato. Quanto a contrastare la violenza dell’epidemia, il colono dichiarava pensieroso: “Questi ti curano solo con il Chinino di Stato” (6) einsistendo imperterrito ripeteva: “Ci vuole ben altro per sottrarci dal contagio”. Nella sua ignoranza di bovaro, pensava con saggezza che sarebbe bastato chiudere tutte le cave (7), ma per chiuderle serviva denaro che i padroni, anche quelli successivi, dicevano di non possedere.
Sfumarono le speranze della famiglia B. Grande, inutilmente attese per ben 89 anni. Tra i contadini intanto nasceva l’impulso di autodifesa, dominava il mormorio delle maledizioni, sempre taciute e nascoste per paura di rivalse; nacquero allora i risentimenti e i rancori sino a sfociare nelle agitazioni agrarie del 1920 (8).Chi oggi desideri visitare quei luoghi, resi gradevoli da un verde diffuso e da un’alberatura imponente, si rechi all’oasi naturalistica delle Tre Palade: tra le cave, che un tempo cingevano gran parte del territorio, noterà quanto è rimasto delle primitive incavature. Ora sono rese feconde dall’immissione delle acque del Sile; un tempo invece costituivano il rifugio endemico della zanzara anofele, allora vettore della malaria.                                            


(4) – Episodio realmente accaduto. La presenza delle cave situate dietro e nelle immediate adiacenze di Cà delle Anfore; secondo la fam. “B. Grande” esistevano già dal 1848, data in cui vi giunse il primo nucleo. Negli anni ses-santa del XX sec. quando la casa colonica fu abbandonata e posta in vendita con i terreni adiacenti; gran parte delle cave furono chiuse con materiali di scarto. (discarica) - Quelle rimaste, sono parte integrante dell’oasi naturalistica delle Tre Pallade. Solo di recente, in un incontro casuale, la notizia è stata riferita al presidente dell’associazione ornitologica, sig. Capitanio Bruno, che nulla sapeva delle lontane origini delle cave. In un contesto più ampio, riferi-remo le ragioni per le quali furono realizzate.

(5) – Il colono si chiamava Eugenio B. - figura singolare, audace, coraggiosa. Nacque il 2 marzo 1901, sposò Bardi Marcella da Musestre, con la quale emigrò in Brasile. Spesso, per incontrare la fidanzata, attraversava a nuoto il fiume Sile.  Di lui si raccontano alcuni diverbi con persone poste di là dell’argine, con le quali ingaggiava discussioni, che risolveva pacificamente, dopo che a nuoto aveva raggiunto l’altra sponda.   

(6) – Con la legge Boselli, il farmaco divenne Monopolio di Stato, il chinino perciò veniva consegnato gratuitamente a tutti i bisognosi. A S. Michele del Quarto distribuiva don Cesare De Martin. A Portegrandi don Antonio Rosada e nel 1922 don Sante Bello ad Altino. - Malaria: malattia infettiva dovuta ad un parassita che viveva nel sangue e nei visceri dell’uomo, al quale era trasmesso mediante la puntura di particolare zanzara, detta anofele. In provincia di Venezia danneggiò migliaia di organismi umani. Infieriva specialmente nelle regioni paludose, ma anche in piccoli stagni o fossati staticamente immobili. Numerosi furono gli infettati della famiglia B. Grande, tra le quali mia madre, allora in gravidanza della primogenita. 

(7) – Eugenio si riferiva all’abbattimento della Via Claudia Augusta, con i resti della quale i suoi predecessori risana-rono parte delle Brustolade e delle risaie site alle Pallade. Eugenio pertanto, riteneva utile chiudere le cave con le stesse modalità cui fecero uso i suoi predecessori.

(8) – Si rimanda al fascicolo relativo alla festa S. Michele n° 19 – 2005. Vi sono riportati alcuni episodi dell’agitazione.

“L’albero della vita” dedicato a Sante
Sante non amava la guerra, non sapeva neppure perché fosse stata dichiarata: era il giugno del 1916 quando un’esplosione dilaniò il suo corpo; non aveva ancora compiuto 18 anni e nessuno dei congiunti voleva rassegnarsi alla sua morte; alla scomparsa si aggiunse anche l’assenza delle sue spoglie mortali, e ciò accrebbe lo sconforto dei familiari.
La madre, turbata dalla presenza di un Carabiniere, reggendosi con entrambe le mani ai bordi della lunga tavola, unico arredo che ornava la nuda cucina, angosciata ascoltava in lacrime l’inesorabile verdetto: “Bonesso Sante di Luigi, soldato del 228 Rg.tofanteria del distretto militare di Venezia, nato a S. Michele del Quarto il 7 novembre 1898; morì in combattimento il 28 giugno 1916 sul Monte Colombara. Disperso” (9).Provati dal dolore, dopo le consuete formalità comunali e cittadine, i famigliari lo ricordarono in vita non potendo posare fiori sulla sua tomba; a duratura memoria pensarono perciò di far crescere un albero, allora considerato una cosa sacra, come un fratello o una sorella, ma il Gelso era molto di più.
La scelta allora cadde proprio su di un “Moro”, non si poteva certo pretendere di più; nessun albero, infatti, per quanto attraente e preferibile al generoso “Morer”, avrebbe meglio potuto rappresentare un agricoltore. In seguito il suo fogliame avrebbe nutrito anche il baco da seta e tanti giovinetti che allora andavano ghiotti per le more bianche (10).
Sono passati gli anni e oggi l’arbusto si è fatto adulto, con le chiome protese verso il tetto del vecchio casolare a posarsi sulle imposte della stanza dove riposava Sante. L’eccezionalità dell’evento assume un valore etico e ciò affascina il visitatore che incuriosito s’intrattiene attento nel giardino di Cà delle Anfore. Lo sarebbe molto di più, se sapesse che l’essere vivente, rappresentato dall’albero, ricorda il primo caduto di S. Michele del Quarto, morto per riscattare la Patria.
Qualche tempo dopo, mediante l’iniquo inganno degli ingaggi prodotti dagli agenti sobillatori e a causa di una mentalità retrograda del patriziato Veneto, la famiglia di B. Sante (11), distrutta dalla miseria, sopraffatta dall’incomprensione, alla ricerca di un sogno impossibile dovette emigrare in Brasile senza nessuna prospettiva di ritorno. Il visitatore che si reca oggi a Cà delle Anfore noterà, tra il verde rigoglioso del parco, posto a sinistra dell’antico caseggiato, già Cenacolo dei Poveri e Tempio di Prolificità, l’albero della Vita dedicato a Sante.                                                                    

(9) - Archivio comunale di Quatto d’Altino, si veda nell’albo d’oro dei caduti. – Inoltre, B. Giorgio di Eugenio nato a Marcon, morì in prigionia il 26 maggio 1918 -B. Lino di Rocco Caporale del 7° RGT. Alpini, nato a Volpago, morì il 25 /08/1916 sul monte Cauriol - B. Antonio di Giuseppe nato a S. Michele del Quarto fu ferito nei fatti d’arme del 16 maggio 1917, subì l’amputazione della gamba destra. Tutti parenti di Sante

(10) – Il moro quando si fece adulto, fu utilizzato quale ricovero notturno per gli animali da cortile. Tuttora fruttifica rade more bianche.

(11) - Il nucleo famigliare del milite scomparso, poi emigrato in Brasile, era composto da 10 persone: Il Padre: B. Luigi Antonio di Sante e di Gaiotto Maria – La madre: Gatto Giuseppa Antonia di Luigi e di Beraldo Luigia. Seguono i figli: B. Maria Amalia – B. Angelo Nicolò (I°gemello + dopo 17 giorni) – B. Sante Antonio (II° gemello sopravissuto) – B. Sante Giuseppe (Morto disperso in guerra; è ricordato tra i caduti nel monumento cittadino) – B. Carolina Clotilde –B. Eugenio: persona trasparente e critica – B. Emilio Antonio – B. Clementina Amalia
B
Luigi Antonio, fondatore dell’intera famiglia, consunto dal duro lavoro moriva a S. Michele del Quarto il 28/02/1907; a soli 35 anni. – Non vide mai la tanto agognata “Merica”, tanto meno seppe della morte violenta del figlio Sante Giuseppe.

Cà delle Anfore: filo infinito della vita
Mano a mano che la storia si fa sempre più storia e compattandosi diventa più storia della storia, è dimostrato quanto la presenza viva di Cà delle Anfore, sia molto più rigogliosa di eventi, più di quanto si possa immaginare.
Nell’entrarvi e guardarla da vicino, dà l’impressione di far parte della mia storia, un passato che pure non è il mio, ma un ricordo forte e presente e che vivrà quanto la mia vita. Visitandola, pare quasi di essere accolto dalle mani invisibili di mio padre, di mia madre che mi amava teneramente e di quanti come loro vissero servilmente.
Le nenie, i canti e le litanie di rito antico, abitualmente ripetute in famiglia, nelle preghiere individuali, particolarmente nei mesi mariani e durante le processioni, sembrano ancora vibrare e diffondersi tra i calcinacci delle vecchie mura.
Dritta come una lancia, lasciandosi alle spalle l’edificio paterno, si spingeva verso meridione, sbattendo poi in faccia al “Lagozzo”, l’antica carrareccia usata prevalentemente per l’attività agricola.
Ora, divelta la strada, non porta più all’oratorio della Casona, neppure si spinge sino ad Altino, là dove un tempo, per mezzo della “Claudia” (12), la pietà popolare offriva fiori di campo alla Vergine e ai Santi Eliodoro e Antonio da Padova.
La testimonianza resa dalla famiglia, confermata poi da uno studio d’archivio, fa pensare all’affresco antico allora presente nel sottoportico di Cà Zane, sopra l’altarolo nel quale dominava il bambinello Gesù in seno alla Madre sua.

Per chi come me ha potuto visitare anche la stanza dove nacque mio padre, non può fare a meno notarne l’immutabilità: è rimasta tale e quale anche quando prese per sposa mia madre. Vi si accede attraverso l’odierna ristorazione: luogo nel quale ieri, si nutrivano solo gli animali da stalla. A suo lato, s’innalzava eretta guadagnando il fienile, l’usuale quanto necessaria scala a pioli, in suo luogo ora vi è posto un ampio scalone.
Per suo mezzo si raggiunge l’attuale salone delle anfore; in passato conteneva solo foraggio, nutri-mento di base per il bestiame bovino. Due gradini ancora e si trova un lungo corridoio, seconda porta a sinistra e un chiavistello di fattura antica.
Apro la porta, non sembra corrosa dai tarli, varco l’ingresso, fisso lo sguardo sullo spazio angusto, non vi è luce elettrica, le pareti pare traspirino ancora sofferenza, osservo il soffitto in canna palustre, palpito… e di colpo mi prende un nodo alla gola.
Quanta tristezza! E quanta felicità nell’incontro. Gioia e amarezza dunque, che unite fanno bene al cuore; e ciò mi conforta.

(12) – Due titoli per un’unica strada: Lagozzo e Via Claudia Augusta, percorso antico che partiva da Altino sino in Germania. Cà delle Anfore è posta a circa 300 metri a nord dalla via romana. Note esplicative sul toponimo Lagozzo si trovano nel fascicolo relativo alla festa S. Michele 2006 - N° 20.

Dalla riverita residenza detta Cà Delle Anfore Giovedì 8 dicembre 2005. (Festa dell’Immacolata Concezione)                                                                                                                                                                  
                                                                          Bonesso Alfio Giovanni 
                                                                       (Erede della Famiglia B. Grande)

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