Ma grazie ai visitatori e all'utilità della combinazione, io stesso poco dopo scoprii la fonte dell'ombra originata dapprima dal sole riflesso sulla Torre che a sua volta proiettava la propria sulla circostante piazza.
In realtà l'ombreggiatura, compatibilmente alla manifestazione del sole, appariva sul piazzale secondo stagione e comunque dopo circa le ore 12,30 sino al tramonto.
D'atra parte la collettività già conosceva gli orari come la traiettoria semi oscura rilasciata al mattino dal campanile. Diversamente quella pomeridiana, accompagnava parte della popolazione presso le botteghe interessate e a quanti non avevano acquistato il pane di buon ora. E acquistandolo al pomeriggio si dirigevano al "Forno" collocato nella piazzetta adiacente Villa Lucheschi.
Ebbene quel panificio fornito di quanto a quei tempi occorreva, era ed è tuttora di proprietà della famiglia Romano. (Romaneto in dialetto)
In realtà, all'epoca degli eventi narrati oggi a fini orientativi, il cosiddetto "Forno" non era posizionato nel medesimo punto in cui si trova oggi. (11) Bensì in un luogo appartato e attualmente non individuabile. (Non lo era viceversa per la popolazione dell'epoca)
Il panificio era comunque preceduto da una folta schiera di Botteghe laterali posizionate sia a sinistra che a destra, dove appunto si stanziava il cosiddetto "Forno". Il proprietario sig. Romano e la moglie Rosa, operavano in una modesta piazzetta limitata al passeggio urbano quando anche separata, da una recinzione reticolata di proprietà come citato, dal Conte Dino Lucheschi.
(11) - L'impianto per la cottura e della rivendita pane di proprietà Romano, non è il tradizionale sito-negozio oggi ben noto alla popolazione. Bensì stazionava sulla stradina laterale, prima casa a destra dove inizia la salita verso il ponte sul Sile. L'alloggio o se vogliamo la palazzina in cui il panificio ebbe i natali, è di origine piuttosto antica. ( Vedi sotto la foto d'epoca)
La strada a trazione commerciale, (Ovviamente per l'epoca riferita) era conosciutissima all'intero paese e anche dalle circostanti frazioni che a piedi o in bicicletta, veniva percorsa da una gran quantità di persone (Anche dal limitrofo borgo di Musestre) in qualunque ora del giorno escluso l'orario di chiusura.
Si sarebbe potuto pertanto conteggiare dato il materiale umano circolante , il numero degli acquirenti diretto alle suddette botteghe.
Dalla moltitudine, emergevano qua e là gruppi di donne in sosta fornite di sporte fatte di paglia il cui contenuto piuttosto ampio, preannunciava una spesa di lunga durata. All'epoca la produzione del panificio si limitava preferibilmente al conosciuto "pan comune", quello privo di grassi appetibile e morbido sino al mezzodì. Verso sera diventava talmente duro da dover tagliarlo con l'accetta.
Nella medesima circostanza non certo accidentale, si alternavano a discutere altrettanti gruppi femminili laddove le zone d'ombra, parevano più a loro portata che altrove. Alcune si rifugiavano per comodità, presso alcuni recinti chiusi, dove la pianta aggrappante chiamata edera, offriva più conforto dell'ombra diffusa dal campanile. Oppure talvolta, sostavano protette da qualche muricciolo rientrante e ombroso dove sostandovi piuttosto a lungo, stabilivano il punto in cui il giorno dopo, avrebbero potuto riprendere le conversazioni.
Ma la zona più apprezzata rimaneva comunque il sagrato della chiesa, dove giacevano in prossimità del muretto limitrofo alla strada comunale, una serie di alberelli piazzati all'interno dello stesso sagrato. Ebbene quella serie di alberelli erano soggetti prima del taglio definitivo, ai giochi per i fanciulli della dottrina cristiana in attesa della chiamata del parroco Scattolin. Frattanto, amavano oscillare con un certo compiacimento, lanciandosi dal muretto della chiesa usato come piedestallo. E scagliandosi a braccia tese in avanti, impugnavano nel volo un ramo dell'albero a tenuta del proprio peso. (Il balzo in avanti aveva come simulazione, la copia dei film su Tarzan nella foresta)
Un disegno intenzionale
Ai colloqui confidenziali praticati dalle donne, prendevano parte anche le conoscenti e le simpatizzanti del gruppo che sostando tutti compresi, facilitavano l'acquisto del pane ai nuclei più numerosi, quali erano all'epoca le famiglie dedite all'agricoltura, le più lontane e disagiate dalla zona commerciale.
E intanto che il tempo correva discutendo, giungevano alcuni mezzadri in ritardo ai quali l'allegra compagnia, concedeva per fragilità femminile e delicatezza, la prelazione già assegnata ai loro colleghi.
Concluse infine le confidenze e giunto a loro volta il turno della spesa, acquistavano finalmente il prodotto ottenuto dalla cottura nel forno. Un acquisto a nostro parere, che aveva come obbiettivo il raggiungimento di una meta, con la quale, ritardando la propria in un disegno intenzionale, davano la facoltà alle famiglie isolate, giunte peraltro in bicicletta, consentendo loro un'acquisto veloce e un altrettanto rientro a casa.
E chissà, ragionando sul mezzo proposto dal gruppo, forse quella meta che avevano raggiunto, proveniva dalla facoltà immediata di avvertire il bisogno altrui. E se in realtà lo era, veniva certo prodotto dalla familiarità avuta coi contadini.
Lo stesso percorso ombreggiante veniva sistematicamente transitato anche dagli anziani, i quali, tenendo conto della comune amicizia, sostavano pressoché nei punti in cui parlottavano le femmine, però in disparte. Ebbene questi vecchiotti dall'aria spavalda, si mostravano condiscendenti per lo scambio tradizionale delle novità del giorno prima, e talvolta, anche discutendo sul recente titolo dedicato al paese. Gli scambi di vedute su questo argomento, venivano discusse da tutti i presenti, molto meno dagli anziani, ai quali e già si sapeva, non piaceva il recente titolo.
L'abitualità e la tendenza alla conservazione del vecchio appellativo, collegabile a fattori consuetudinari legati agli anziani autoctoni, si ripeteva anche su lettera affrancata (inviata da quanti non erano illetterati) che per abitudine, ponevano ancora a tergo della lettera il vecchio recapito. E nonostante fossero trascorsi cinque anni dal mandato comunale, le missive decorrevano ugualmente e le risposte giungevano comunque. A sentire il nonno combattente durante la prima guerra mondiale, diceva che al nuovo titolo, non seguiva la celerità con la quale la posta, giungeva ai suoi tempi.
Del resto le soste previste lungo la strada, adatte più che altro al chiacchiericcio, lo erano già da tempo. Non è noto da quando, se non nel momento in cui io stesso percorrendo la via, ne ebbi la piena coscienza durante i primi anni cinquanta. Epoca in cui stava crescendo un amicizia generale, grazie all'attività popolare, resa stabile e duratura dal pro erigendo campanile. E se talvolta il sistema delle soste e delle sobrie chiacchierate non avevano come base l'affiatamento e la disponibilità di tutti, valeva all'opposto il rapporto di stima e di apprezzamento, ritenuti più forti della prima.
Nella zona destinata al commercio operavano oltre al citato "Forno", una serie di botteghe sistemate in graduale successione. A tutta prima parevano avessero potuto arricchire il tratto di strada, senza tuttavia valorizzare nulla.
La maggior parte dei negozi avevano infatti, un aspetto spiacevolmente vecchiotto, poco pulito causato dalle infrequenti imbiancature, a tutto svantaggio del titolare e di ciò che vendeva.... rapportando ovviamente quei tempi agli attuali.
***
Terza e ultima parte limitata
ai primi negozi
La prima bottega situata a sinistra della strada diretta per Musestre, si mostrava occupata dal macellaio Boccaletto. Seguiva "Riparazione Moto e Cicli" dell'artigiano sig, Pavanetto, il cui gestore erogava anche miscela per motorini. In uno stanzino abbastanza ristretto di proprietà Perazza, esercitava il barbiere Bellio. Seminascosto presso la piazzetta dove operava il Forno, si stanziava anche la bottega del meccanico per sole biciclette, il giovane Gatto Ampelio.
Sul medesimo spiazzo operava il pollivendolo, Nino detto "el Poeamer". Originario di S. Michele Vecchio portava al suo seguito alcune gabbie in legno munite di aste verticali dove giacevano accovacciate e immobili le innocue galline, che vendeva.
Il lattaio "Lattariol" Brigantin Eliseo operava lungo la via soltanto al pomeriggio in quanto al mattino doveva occuparsi per la mungitura delle mucche. Equipaggiato di bicicletta e carretto sopra cui giacevano alcuni recipienti dal formato rotondo in lega d'alluminio, forniva alla sua clientela il latte giornaliero. E le massaie dopo averlo bollito e posato sul davanzale di tramontana, (Il punto più fresco dell'abitazione) durava sino al giorno seguente. (frigoriferi ad uso familiare non esistevano)
Giungeva frattanto da Musestre il fruttivendolo Armando Pavan. Armato di carretto condotto dalla generosa cavalla, si riversava lentamente lungo la via col fieno riservato al quadrupede. E durante le parecchie soste cui seguiva la reclamizzazione degli alimenti prelevati di buon mattino al mercato di Treviso, che poi poneva in vendita. All'abbondante frutta e verdura fresca, seguivano ghiottonerie per ragazzi a carattere dolciastro, conservati in contenitori riparati e rispondenti alle esigenze e prescrizioni dell'igiene. E sostando a tratti, emetteva con voce altissima, rapportabile oggi ad un'intensità di richiamo rilevante, col quale riusciva persino a stupire le stesse possibili acquirenti, che al momento dell'emissione, avevano le imposte chiuse. Cosicché al grido "Femene", invitava tutte le donne del quartiere a scendere in piazza. E le femmine, udendo l'Armando giunto per la rituale spesa, si riunivano sostando e chiacchierando lungo la via.
Di tanto in tanto si notava lungo la medesima via, anche il gelataio Rosolin Giovanni che pur vendendo a buon prezzo la merce, non riusciva a quanto si notava, intrecciare buoni affari con gli adulti vincolati dalla spesa. Abitualmente però, il Giovanni si posizionava in prossimità della chiesa in attesa dei ragazzi all'uscita della Messa domenicale e dei Vesperi pomeridiani. In più, pedalando sul proprio mezzo, correva, lungo le strade del paese, sino a i rispettivi borghi delle Crete e S. Michele Vecchio.
Abitava in via Marconi nella casa detta "quattro camini". (Titolo assunto per le quattro canne fumarie uguali) Piccolo proprietario di un modestissimo pezzetto di terra che coltivava a titolo familiare, era anche un abile professionista del buon gelato. Di sera si occupava con l'intera famiglia nella produzione del gelato casalingo. L'ultima volta che lo vidi col triciclo itinerante fabbricato appositamente per i gelatai, si realizzò il giorno 19 maggio 1957 durante la visita Pastorale alle Trezze (Frazione di Quarto d'Altino) del Patriarca di Venezia, Card. Angelo Roncalli.
Nel 1962 a seguito di una lunga malattia lasciò questo mondo per l'altro. In suo luogo si prodigò il giovane figlio, finché la famiglia emigrò in Lombardia.
Ma la bottega ritenuta più importante per la spesa giornaliera, era la "Drogheria" della sig.ra Prima Perazza detta altrimenti "Primeta". Nei pressi si notava e si nota tuttora, il campo per gare di bocce stanziato presso l'osteria Perazza Antonio chiamato "l'osto".
L'Antonio, uomo garbato e geniale ideale per l'amicizia e i relativi intrattenimenti bocciofili era cugino della generosa sig.ra "Primeta". Conosciuta dall'intero paese come un donna dal carattere mite a cui non mancava la disponibilità, oltre alla grandezza d'animo, nacque durante il diciannovesimo sec. (1800)
Foto d'archivio - Alfio Giovanni Bonesso. Nell'immagine si nota la casa con alloggi, di proprietà Antonio Perazza. La foto di vecchia esecuzione, mostra al piano inferiore l'osteria a cui vi è stato aggiunto il porticato in lamiera. Nell'annessa residenza posta di lato vi abitava la famiglia, sotto la quale vennero aperti a piano terra, in luogo dello stazionamento carrozze e cavalli, un negozio per barbiere e la tabaccheria gestita dalla signora "Primeta" Perazza. Si nota il crocevia privo della attuale rotatoria e un traffico automobilistico alquanto debole.
La generosa "Primeta"
E ricordando la personalità della sig.ra, domandava giusto quel giorno al mio genitore, giunto frattanto nella tabaccheria della Primeta per l'acquisto di sale. Incuriosita dal parlottio piuttosto confuso udito intorno alla propria famiglia, gli chiedeva: "Gigetto, go sentio che te ga da maridar to fia".
Alla domanda rispose Luigi, che caduto in depressione per mancanza di danaro con cui doveva maritare la figlia di anni 19, ribatteva che soldi al momento non ne aveva. "Quanto ti dovrebbe servire domandò la Primeta?" E il Gigetto non avendo la minima idea, rispose col numero più o meno degli invitati al pranzo, come del resto avveniva per la cena durante la quale bisognava pagare pure i musicisti.
(Per quanti non conoscono o non hanno confidenza coi matrimoni dell'epoca, si prevedevano dalla parte della sposa non meno di un centinaio di persone. Altrettante per lo sposo)
E il giorno successivo il Gigetto, in accordo con la "Primeta", si recò a ritirare il danaro corrisposto in Lire 30.000. Incredulo della ricevuta somma, si preoccupò anzitutto del debito privo di scadenza. Tutto sommato, secondo la sig.ra Prima, la restituzione avrebbe potuto dilazionarsi un po' per volta, oppure quando in grado di farlo. Ma Luigi riconoscente, riconsegnò la somma rateizzandola in circa mesi sei. E' noto d'altra parte che all'epoca bastava soltanto la fiducia del creditore e l'onore del debitore. E chiunque avesse avuto tali requisiti, avrebbe riconsegnato il corrispettivo a chi ne aveva il diritto, malgrado le generali ristrettezze economiche dell'epoca. Si confermava così nel nostro paese, il comportamento regolare e civile della popolazione acquisito da secoli, vivendo in comunità.
Difficilmente oggi in una riflessione piuttosto amara, si concedono prestiti a chi non è della medesima parentela, se non tramite interessi, finanziamenti, mutui e carte firmate.
La Bruna Maria di anni 19 si sposò l'otto settembre 1951 alle ore 7,15 di mattino, grazie al prestito della generosa Primeta. L'orario scelto dal parroco Scattolin, avrebbe coperto lo scandalo che sarebbe scaturito, quando la popolazione avrebbe conosciuto lo stato interessante della ragazza. A causa dunque dell'atto peccaminoso dichiarato in confessione e dall'addome lievemente pronunciato, le venne proibito oltre all'orario ingeneroso del matrimonio, d'indossare l'abito nuziale bianco, sostituito con giacca e pantaloni tinti Kachi. L'orario mattiniero per giunta fuori mano dal pranzo previsto per le ore 13, causò com'era previsto, l'assenza di molti invitati. Il rito si svolse nella chiesa parrocchiale celebrato dal cappellano don Romano Gerichievich delegato sostituto del parroco. (12)
Una seconda ragazza domiciliata in paese (Per ragioni di privacy, si evita citare il nome) dovendo maritarsi e confessare al parroco l'atto peccaminoso come la Bruna Maria, avendo prudentemente taciuto l'ampollosità della propria vicenda, si maritò ugualmente alle ore 12 circa con la sola differenza che la reo confessa, si maritò all'albeggiare del nuovo giorno, l'inconfessa sul far del mezzodì. D'altro canto il parroco non avrebbe mai concesso l'assoluzione, se la seconda non avesse accettato maritarsi all'ora destinata da Scattolin don Carlo.
Al matrimonio accordato dal parroco conforme al desidero degli sposi inconfessi, si realizzò con abito nuziale bianco. All'uscita dalla chiesa, una moltitudine di persone applaudenti gioivano per gli sposi e per l'abito elegante indossato dalla sposa. Viceversa Bruna Maria, vittima della propria sincerità, causa per la quale dovette affrontare il matrimonio allo spuntar dell'alba, rinunciando tra l'altro agli applausi e i rituali confetti lanciati ai ragazzi, segno inequivocabile del festeggiamento in corso, rimaneva così rintanata in casa, sino all'orario previsto per il pranzo nuziale.
Neanche sette mesi dopo nacquero alcune vispe fanciulle e le novelle spose, trovando finalmente uno spazio confidenziale, si svelarono una all'altra le inquietudini imbattutesi durante i rispettivi matrimoni e senza tanto riguardo per le formalità dell'epoca.
Le spose comunque, non ebbero niente di personale da addebitare al parroco il quale, aveva dovuto obbedire agli ordinamenti superiori della chiesa. Così correvano quei tempi.
(12) Gerichievich don Romano di Antonio e Vincenza Verzotti. Nacque a Curzola (Dalmazia) il 13 gennaio 1913. Esule dalmata presso il Patriarcato di Venezia che servì per 10 anni, tre dei quali li trascorse a Quarto d'Altino in qualità di cappellano al parroco Scattolin don Carlo.
L'esule giuliana Gorich insegnante
a Quarto d'Altino.
Circa tre anni dopo, il 1954 circa, assistetti seduto sul muretto che all'epoca circondava il sagrato della chiesa, alla mobilitazione di centinaia di carri armati diretti sulla statale detta Triestina. A quanto si udiva si recavano a Trieste (città Giuliana) dopo 10 anni di occupazione Jugoslava nel tentativo di liberare la popolazione dal nodo scorsoio titino.
Al transito, temporaneamente bloccato in piazza, causato dal difficile inserimento delle autoblinde sulla strettoia di Portegrandi, uscì frattanto un mucchio di gente dall'osteria Perazza e dai negozi che nel mentre dell'acquisto si proiettavano sulla strada col fiato sospeso dai roboanti rumori, chiedendosi cosa stesse succedendo. Un soldato sorridente, uscendo dal boccaporto del blindato mostrando il capo foderato da un elmetto fatto non si sa di che cosa, dichiarava: "andiamo a Trieste per festeggiare la città liberata". L'insolita difformità di veduta nei termini usati dal militare, mi apparve del tutto strana. Una stranezza per la quale a mio modo d'interpretare il festeggiamento, mi chiedevo perché mai celebrare una festa mobilitando dei carri armati, da usarsi soltanto per manifestazioni di guerra.
Al festeggiamento per Trieste liberata, non seguì la penisola Istriana tenuta prigioniera dai titini. Causa per la quale la giovane maestra Gorich esule Giuliana a Quarto d'Altino, continuava durante le lezioni giornaliere ad educare i giovani al bel canto. (inserito peraltro nella pagella scolastica) E intonando l'Inno, e Inno lo era davvero per i Giuliani, si cantava a squarciagola "Le ragazze di Trieste cantan tutte con ardore, oh Italia del mio cuore tu mi vieni a liberar....".
L'evidente ardore della maestra Gorich, la portava spesso a rivolgersi alla propria terra d'origine, dichiarandola fervidamente suolo italiano appartenuto sin dall'epoca Augustea. Praticamente la penisola istriana era già di competenza nella continuità dello Stato italiano, della Regio X Venetia et Histria (13). L'imperatore Augusto infatti, fondò secondo la Gorich, un popolo italiano legato a Roma, e Roma all'Italia.
(13) La decima regione Venezia e Istria, venne fondata dall'Imperatore Augusto durante l'anno settimo d.C.
Il cinema Sile
Ma ciò che più risaltava sulla via, si deve al famoso e unico "Cinema Sile", aperto di sera due volte la settimana, più il sabato e la domenica senza interruzione.
Durante la settimana in cui si svolgevano le riprese cinematografiche, venivano posti sulla facciata esterna del fabbricato e, per tutto l'arco di tempo, alcune locandine (cartelloni) riproducenti le immagini dei film, impegnando non poco i giovani nei dibattimenti.
Una discussione che aveva come principio la visione della pellicola, qualora le proiezioni contestate dal parroco non avessero avuto come finalità l'esclusione dei giovani. Il parroco infatti, aveva frattanto affisso sul portone centrale della chiesa, alcune personali riserve sui filmati da evitare o comunque da assistere. Vedi esempio: "Per soli adulti"- "Adulti con riserva"- "Escluso". La riserva che doveva convalidare la partecipazione dei giovani, cioè "Per tutti", lasciava intendere solamente le proiezioni sui film Western. (Tipo "Ombre Rosse" con John Wayne)
I filmati vietati, venivano diversamente offerti in visione ai giovani mediante l'esposizione dei citati "cartelloni", sui quali la maggior parte dei ragazzi protestavano il verdetto del parroco. Alle critiche si univano i sorrisi ironici degli adulti frequentatori abituali della via, i quali, coi loro sinistri risolini, ti lasciavano intendere, "non sono per voi".
D'altra parte i filmati, per così dire proibiti, ci avrebbero fornito immagini fotografiche di paesi remoti e terre sconosciute e tante curiosità sugli animali. Non mancavano in certi casi i misteri della natura e gli aspetti di ciò che tuttora la circonda. E purtroppo abbiamo dovuto rinunciarvi, grazie anche al divieto imposto dai nostri genitori.
Foto d'archivio - Alfio Giovanni Bonesso. Vedi il cinema Sile e la scritta sopraelevata sul sottostante ingresso cinematografico. A lato si nota l'Orologeria del sig. Cadamuro. Non appaiono esposte per l'occasione le locandine sui film da proiettare. Ora l'ex sala cinematografica è occupata da un commerciante di frutta e verdura.
Provvisoriamente stanziato accanto alla sala cinematografica, apparve frattanto un negozio affittato all'orologiaio sig. Cadamuro. In tale abitacolo, destinato più che altro a contenere il solo venditore, molto meno la clientela, veniva ad aprirsi per la prima volta un negozio addetto alla vendita e riparazione orologi. (A Roncade per esempio esisteva l'orologiaio sig. Guerretta, negozio al quale si rivolgeva anche la clientela di Quarto d'Altino)
Il suddetto negozio col temporaneo affittuario, aggiustava in particolare le sveglie da camera, piuttosto che orologi da polso, peraltro rari a quei tempi. Tutto sommato si guadagnava da vivere vendendo fedi nunziali, collanine dorate e medagliette per la prima comunione, molto meno gli orologi da polso, se non qualcosina in più durante le cresime.
L'attività del Cadamuro funzionava ugualmente malgrado il numero della clientela e il numero ridotto della popolazione. D'altra parte la cittadinanza legata com'era in offerte per l'erezione del campanile, si sarebbe impegnata piuttosto che altro, per la prossima scuola materna. Per la quale opera già se ne parlava diffusamente dopo l'acquisto del fondo ad opera del parroco, per cui le offerte "pro asilo" ritenute da chi era contrario a fondo perduto, avrebbe risarcito domani l'intera comunità. E anche stavolta la comunità, credendovi, centrò l'obbiettivo.
All'inizio del viale, abitava il Giornalaio sig. Giovanni Sinistri e coniuge, gestori nel medesimo ambito del telefono pubblico. Ai quali compiti, dovevano provvedere anche alla pesatura delle frequenti derrate e carichi condotti in particolare da buoi. L'incarico era stato loro assegnato dall'azienda comunale il cui peso determinato dalla prassi, veniva dirottato al consorzio, o imbarcato al porto sul Sile.
Un ricordo sul traffico dei carri trainati dai bovini, sui quali mi viene spontaneo narrare le frequenti sostanze organiche rilasciate dagli animali. Ed era piuttosto offensivo a nostro giudizio, vederli appesantiti dai carichi di barbabietole, dal fieno sciolto o a volte imballato da teli e dopo le vendemmie tinozze ripiene d'uva, seminando durante il trasporto i relativi escrementi.
La ripulitura a cura degli stradini comunali (oggi operatori ecologici) a capo dei quali operava il sig. Volpe Luigi, il quale, dovendo servirsi di una lunga serie di ex combattenti della prima guerra mondiale in pensione, li convocava il giorno prima. Andava bene quando se ne presentavano due di numero, disapprovando in tal caso la retribuzione per tali prestazioni d'opera. Perciò la cura delle strade avveniva con forte ritardo.
Traboccante di gente, di merci e di animali, oggi purtroppo la via non si riconosce più dalle emozioni culturali di una volta. E dopo quel breve e vivace periodo esercitato dal transito universalmente riconosciuto, pare davvero abbia perduto quella fertile e utile attività dello stare insieme. E se ora la via si presenta pressoché deserta, non è poi tanto difficile capire la causa, se non quella esercitata dall'espansione del paese e dalle recenti attività. Ma anche a nostro avviso, dall'interruzione di quei calorosi e positivi incontri, peraltro non casuali, durante i quali lo spogliarsi dei problemi anche personali, veniva apprezzato e discusso tra amici e conoscenti. Ebbene quella gente cui conoscevo, era priva del tutto, delle cosiddette idee improvvise e balorde manifestate poco dopo dai marchi griffati sulle vesti. Insomma stava emergendo la fretta dell'essere, del mostrarsi.
La fretta soverchia
Una nota a parte meriterebbe oggi coi tempi mutati, una franca discussione valutando ovviamente il tempo corrente a quello trascorso. E giudicando l'odierno sarebbe causato a nostro avviso dall'introduzione di un nuovo stile di vita, o se vogliamo dall'inconsueta e involontaria rapidità di esecuzione chiamata fretta, inesistente all'epoca.
Alla necessità di urgenza entrata prepotente nella società, si aggiunsero in seguito gli atteggiamenti, la condotta e le caratterizzazioni personali. L'evoluzione piuttosto indesiderata, avrebbe coinvolto dannosamente gran parte delle famiglie, le quali furono costrette a rinunciare ad una somma di principi, con le quali ieri, tranne improrogabili cause maggiori, la soverchia fretta non includeva il vivere normale delle persone.
A sostituire ciò che ieri non era nelle abituali caratteristiche della popolazione, giunse circa 40 anni dopo, l'utile e amico fraterno cellulare. Dopo un breve periodo di prove, controlli e verifiche, otteneva la simpatia e l'amicizia della collettività, che aveva frattanto dimenticato quella ottenuta dall'esperienza della vecchia cittadinanza.
Cosicché la smemorataggine si fece tanta e tale, che il nuovo sistema divulgativo limitò, oltre a quanto già limitato dalla fretta, il contatto umano e le stesse relazioni personali.
Notoriamente i rapporti di allora mettevano al corrente ciò che telefonicamente non si poteva dichiarare, e nemmeno le confidenze dell'amico conoscente in termini dettagliati, se non discutendo "de visus". Praticamente vennero meno quei contatti legati al sistema degli incontri e della stessa amicizia, con i quali la recente popolazione, scostandosi dai ricordi e dagli affetti del recente passato, otteneva in cambio, ciò che nell'animo proprio teneva nascosto dentro di sé. Vale a dire, il gradino sociale, il prestigio, la superiorità sull'altro.
A cavalcare l'imprevisto, giunse poco dopo l'intolleranza individuale e la faziosità su tutto ciò che non era opinabile. Vi successe poi la caparbietà, la vanità e l'alto concetto di sé. Notoriamente poi esistevano gruppi sociali piuttosto chiusi, che godendo di particolari privilegi non concedevano ciò che a loro era consentito, e così via.
Dati di fatto che, apparvero chiari i motivi per i quali oggi, quegli incontri amichevoli lungo la via ombreggiata, hanno dovuto piegarsi ai tempi correnti. Insomma, mai come allora la vita era dolce, gradita e scorrevole. Tempi nei quali frattanto, vennero a mancare anche quei sentimenti di amicizia, ora simbolici. Venne pure a rimetterci il vivere semplice, quello naturale e spontaneo, abituale all'epoca tra la gente sostanzialmente sincera e per bene.
Quel periodo lontano oramai dai miei ricordi, iniziò sin da quando vedevo la popolazione ripararsi dal sole gradendo l'ombra degli alberelli, dei recinti ombrosi e dei muriccioli rientranti, ottenendo come si diceva a quei tempi, il meglio della giornata. E poi c'era anche la Torre che pur dolendosi oggi dei tempi andati, continua ininterrotta ad ombreggiare la piazza, ora vuota dalla presenza umana.
Perduto il contenuto migliore e svuotata dai calorosi e amichevoli incontri, magari anche informali dei quali allora nessuno badava più di tanto, e tuttavia ci si s'incontrava regolarmente. Ma c'è di più, non si dialoga più a viso aperto, anzi, talvolta pure ci si evita.
Un secondo campanile
A partire quindi da quell'aspro termine chiamata fretta e del rifuggire persino a se stessi, oggi non si trova più memoria di quanto allora sostenevano con forza le caratteristiche di una collettività abituata al quieto vivere, e perché no, anche ad un sobrio chiacchiericcio magari anche inutile tenuto lungo le strade.
Così, come usava appunto la gente normale, quella di una volta, quella cui teneva legato a sé il patrimonio affettivo e sempre disposta a ragionare su tutte le cose da farsi o che non funzionavano. (11)
D'altra parte, non sarebbe poi tanto male ripensare a quanto è stato abbandonato se dovessimo oggi edificare un secondo campanile.
E se questo dovesse bastare per sentirsi uniti ne faremo un secondo. E col prossimo miglioreremo anche noi stessi, ritornando come eravamo a quei tempi.
(11) Tali conversazioni erano utilizzate anche dai commercianti e artigiani dell'epoca, giova dire peraltro, che al compimento del campanile, si fecero sempre più rade le comunicazioni personali usate durante la costruzione. Stava emergendo infatti un nuovo modello d'interpretare la vita in comune.
Foto d'archivio - Alfio Giovanni Bonesso.
Nota nella foto il Palazzo Perazza. E' situato in prossimità del pendio che porta al fiume Sile. I vani al piano terra svolgevano vari servizi tra cui un piccola osteria, negozio alimentari o drogheria e spaccio carni. All'epoca la macelleria conservava le carni in una ghiacciaia in legno gestita da personale proveniente da Roncade. La vendita era autorizzata una volta la settimana. La prima porta del palazzo visibile nell'angolo a destra della foto, indica una sala non molto spaziosa in cui si tenevano durante i primi anni dopoguerra, serate danzanti, pranzi e cene di nozze. (Si veda a proposito alcune foto dell'epoca)
A lato della sala da ballo non visibile nella foto, operava in un locale assai minuto, il barbiere sig. Bellio. Nel fabbricato successivo, l'ultimo eretto presso il fiume Sile, esercitava il panificio Romano Giuseppe e coniuge Rosa forniti di un forno a legna. (Vedi sul fondo della foto)
L'esercizio del sig. Giuseppe Romano era posizionato dopo il primo ingresso, seconda porta a destra. L'edificio ritenuto molto vecchiotto trova origini dal conflitto mondiale del 1915/18. E' attualmente abitato con alloggi e vari negozi.
La seduzione esercitata dalla Torre.
E' noto d'altra parte che la Torre seduce e invoglia quanti sono attratti dalla sua imponenza. Molto meno quando si tratta di uno sforzo prolungato da farsi su di un percorso girevole e tutto in salita che indica uno stato d'insofferenza. Permane in ogni caso il desiderio di visitarla, malgrado l'energia da spendere.
Vi si sale attraverso uno spazio piuttosto ampio, sufficiente per due ragazzi, inadatto per gli adulti. E' composta da 41 balconate completate e rifinite da soprastanti lineamenti arcuati, abbelliti in mattoni faccia-vista. Le finestre aperte sono protette da altrettanti robusti parapetti in marmo. La spaziosa cella campanaria orientata su tutti i punti cardinali, permette al visitatore ruotarvi a 160 gradi.
Il loggiato necessariamente interrotto dalle inevitabili colonne di sostegno, non arrecano alcun danno all'appassionato fotografo che potrà roteavi senza inclusioni di sorta. I supporti d'altro canto servono a reggere il tetto, le quattro campane più il sonnello (Campana minore delle tre) e l'arcangelo Michele sulla sommità.
La Torre dunque possiede tutte le caratteristiche, simili ad un imponente Titano, (riferito ovviamente al romanticismo delle lotte titaniche) piuttosto che a quei modestissimi rilievi appuntiti d'altri tempi detti campanili. Ripensando poi al titolo Torre, non è possibile allontanarsi dal significato divenuto oramai universale, sia per la forma, per la potenza e per ciò che manifesta la storia che andiamo a narrare al primo capitolo. Ritroviamoci dunque al numero 1.
Fine
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